di Fabio Giovinazzo

Forza simbolica con raffinatezze in profondità di campo per un’attrice che suscita impressioni sboccate tra comicità e dolore. Anna Magnani, simbolo del Neorealismo. Ecco, infatti. “Schermo” sul quale proiettare la coscienza di quella ferita che dalla guerra più crudele arriva, soffrendo, alla guarigione. E’ l’Italia che fa gridare il popolo: fragile con generosità, istintiva e sussurrante all’arte i sogni della vita. Stia lontano il dubbio! Nannarella apre al meccanismo unico di una verità proletaria che sa, in ogni tempo e spazio, di appartenere ad una regina.

Nasce a Roma il 7 Marzo 1908. La madre fa la sarta, il padre non si sa chi sia. Ecco, lo scandalo! Viene data in affido alla nonna materna e sposta la sua vita ad Alessandria d’Egitto. Ma quanta sofferenza per non aver potuto trarre dolcezza dai genitori! La povertà tocca livelli estremi, bisogna stare attenti a non cedere alla tristezza. Sostenuta dalla nonna, frequenta l’ambiente scolastico fino al secondo anno di liceo, quindi passa diversi mesi in un collegio di suore francesi.

Decisamente, a questo punto, tocca all’arte. Giacché il talento va fatto crescere, stuzzicato con passione, garbo e spirito coscienzioso. Nel 1926 frequenta la scuola d’arte drammatica “Eleonora Duse”, ma l’anno successivo è già nella compagnia teatrale del commediografo Dario Niccodemi. Piccoli ruoli, tanti viaggi, nuove compagnie: la gavetta è in pieno svolgimento! Nel 1934 passa al teatro di rivista e appena le cose iniziano a girare nel verso giusto arriva il debutto sul grande schermo. Il ruolo non è indimenticabile (“La cieca di Sorrento” di Nunzio Malasomma) ma, nello spazio italico dell’industria cinematografica, è finalmente apparsa quella stella che un giorno farà parlare di sé come forse nessun’altra.

Passa il tempo, i ruoli al cinema aumentano ma restano deboli. C’è chi la ritiene non particolarmente idonea. Tra questi Goffredo Alessandrini che la sposa nel 1935 e finisce per dirigerla l’anno successivo in “Cavalleria”, dandole in consegna un ruolo piuttosto marginale. In questo periodo il teatro è la dimensione entro la quale ottiene le maggiori soddisfazioni, tra energie drammatiche tirate fuori all’improvviso e gli avanspettacoli di successo con il grande Totò. E il cinema? Arriva Vittorio De Sica ed è subito qualcosa che scalcia la natura comprimaria e si trasforma in grande occasione: “Teresa Venerdì” (1941) è il film dove Anna Magnani non ha più un ruolo secondario, recitando faccia a faccia con lo stesso De Sica.

Intanto la vita privata non passa inosservata. Finito il matrimonio con Goffredo Alessandrini, nasce il figlio Luca (sarà l’unico) dal rapporto con il giovane attore Massimo Serato, che si allontana dalla sua vita non appena messa in risalto la gravidanza. Le cose della vita.

Nel 1943 recita nella commedia “L’ultima carrozzella” di Mario Mattoli e soprattutto in “Campo de’ fiori” di Mario Bonnard dove interpreta una fruttivendola rifiutata in amore dal pescivendolo Aldo Fabrizi. Celebrando l’ambientazione popolana, quest’ultimo film sarà il colpo in canna verso lo scoppiettio al Cinema del Neorealismo.

Ed ecco l’ultima occasione, intesa come la più grande sulla quale scommettere. Roberto Rossellini – con il quale appoggia sotto i riflettori una relazione sentimentale – la invita a disporre le armi del talento nei confronti della Storia insieme, nuovamente, al collega Aldo Fabrizi. Il film? E’ il più noto dell’elenco, il manifesto del sopracitato Neorealismo: “Roma città aperta” (1945). Le riprese iniziano un paio di mesi dopo la liberazione della città e decisamente forte appare il desiderio di raccontare gli orrori del conflitto. Nella trilogia che fa la guerra al fascismo, occupa il primo posto in chiave cronologica: Rossellini girerà solo in seguito, infatti, “Paisà” (1946) e “Germania anno zero” (1948). Il successo è clamoroso. La storia del cinema si divide in due ere: una prima e una dopo “Roma città aperta”, disse Otto Preminger. E nell’immaginario collettivo arriva a definire al meglio la Resistenza e l’occupazione tedesca della capitale. Quanta forza drammatica! Anna Magnani travolge con la sua personalità, infuocata dalla tragedia, il pubblico che la guarda e quella critica che la studia. Corre dietro al camion, Anna Magnani! Verso un destino scritto dalla Morte che violenta il nome dell’amore e frutto della prepotenza. La raffica nazista mette a brandelli la pietà: non vedrà più il suo uomo, il figlioletto urla di dolore. Che scossa per il cinema italiano: indimenticabile! La donna che appartiene al popolo si è ormai trasformata in un simbolo imprescindibile. Vince il Nastro d’Argento e fa volare il suo nome in tutto il mondo.

Nel 1946 recita per Alberto Lattuada nel film “Il bandito” e torna con Vittorio De Sica in “Abbasso la ricchezza” di Gennaro Righelli. L’anno successivo conquista un altro Nastro d’Argento e viene proclamata migliore attrice a Venezia, nella celebre Mostra, per il film “L’onorevole Angelina” di Luigi Zampa. In quest’ultima opera è ancora la popolana battagliera, una figura carismatica alla quale si affida un gruppo di donne oltreché madri in balia delle tremende condizioni figlie del dopoguerra. Poi tocca alla gelosia drammatica che vive attraverso “Assunta Spina” di Mario Mattoli e riluce ancora come un gioiello di bravura in quello che sarà il suo ultimo film con Roberto Rossellini. Quindi l’amore per il regista se ne va, ma arriva il terzo Nastro d’Argento. “L’amore”, appunto! Ecco, il titolo del film si diverte con la vita e pone l’arte a guizzante compromesso. Due atti, lei sempre protagonista: un monologo al telefono dove subisce la natura sfuggente dell’amante infine la seduzione ingannevole di un biondo e barbuto Federico Fellini – il soggetto de “Il miracolo” porta la sua firma – che occupa il ruolo di un vagabondo scambiato in gioventù per San Giuseppe. Poi è nel film “Vulcano” (1949) di William Dieterle.

Sicuramente “Bellissima” è il titolo di uno dei suoi film più importanti e consegnati alla memoria. Lo gira Luchino Visconti nel 1951. Nell’opera Anna Magnani apre il cuore e impegna la coscienza, guidando la volontà di una donna che intende lanciare sua figlia nel mondo dello spettacolo. Le umiliazioni da pagare avranno un conto salato e l’offesa, nel suo complesso, evolverà in quel marchio senza leggerezza per ogni cuore di madre. La recitazione celebra nel miglior modo possibile lo sviluppo di una vicenda che prende a schiaffi l’amore materno, ferendolo e poi scrutandone la fierezza. Non ci sono dubbi, è suo il Nastro d’Argento. Siamo a quattro, avanti! Nel 1952 diventa Anita Garibaldi nel film “Camicie rosse” di Goffredo Alessandrini, suo marito in passato. Successivamente appare ne “La carrozza d’oro” (1952) di Jean Renoir.

Hollywood inizia a corteggiarla. Il fascino della nuova e mirabile avventura sembra dominare come immagine di un riconoscimento finalmente mondiale. Anna Magnani recita nel film “La rosa tatuata” di Delbert Mann. Siamo nel 1955 e al suo fianco ha Burt Lancaster. Impresa non convenzionale, il traguardo è una forma di vittoria che sconquassa il firmamento delle stelle. 

Siciliana emigrata in Florida conduce battaglie d’amore, senza riuscire a sfuggire da quello che fu il marito: è il ruolo che diventa miglior interpretazione femminile, quindi il Premio Oscar si lascia conquistare dal suo grande talento.

La strada è segnata dagli arabeschi del successo, non ci si può fermare! Nel 1956 arriva il quinto Nastro d’Argento grazie all’opera “Suor Letizia – Il più grande amore” di Mario Camerini, dove incarna una monaca che butta nel silenzio i sussulti della maternità. Hollywood è ancora lì, comunque! Brilla nel film “Selvaggio è il vento” (1957) di George Cukor, che pone l’accento anche sulla presenza di Anthony Quinn. Nello specifico: David di Donatello come migliore attrice e nuova candidatura all’Oscar. Gli applausi restano in forma obbligata. Nel 1959 conquista un altro David di Donatello, spingendo il film “Nella città l’inferno” di Renato Castellani a vertici notevoli di vita estremamente vissuta: qui è un’esperta detenuta che in un carcere femminile prende sotto la sua protezione un’ingenua ragazza (interpretata da Giulietta Masina), per confrontarsi in seguito con dinamiche spavalde, malinconiche, beffarde. 

Insieme a Marlon Brando si fa dirigere da Sidney Lumet in “Pelle di serpente” (1959), quindi consegna alla leggenda il successo della sua avventura in America.

Poi arriva il momento di fare un salto nel passato e in “Risate di gioia” (1960) di Mario Monicelli forma nuovamente con Totò quella coppia che divenne storica per l’avanspettacolo. Prezioso e indelebile il momento successivo. L’artefice ha un nome ben inciso nella storia della poesia umana: Pier Paolo Pasolini.

Nel 1962 “Mamma Roma” permette alla Magnani di celebrare con forza dirompente un personaggio traboccante di sensibilità che sorregge una forma d’amore senza tempo. E’ quello di una prostituta verso il proprio figlio: ecco, l’ultima grande interpretazione al cinema per Nannarella.

In teatro scattano gli applausi del trionfo per “La lupa” di Franco Zeffirelli dove è protagonista partendo dall’opera famelica di Verga. Intanto il Neorealismo perde forza: senza risalita perché il declino fa parte anche delle cose della vita. La televisione, nuova frontiera da esplorare: ebbene, il regista e produttore Alfredo Giannetti riesce a convincerla! “Tre donne” diventa un ciclo di tre film che prendono ispirazione proprio da quelle figure femminili elevate dalla Magnani con grandi interpretazioni. Ed è come la proposta di un’eredità. Quindi nel 1971 nasce il film “Correva l’anno di grazia 1870” – diretto da Giannetti – che segna per Anna Magnani la fine di un percorso da assoluta protagonista.

Con “Roma” (1972) il grande Federico Fellini giunge poi a donarle un momento che diventa in fretta sinonimo di una passerella emozionale degna di un sogno che nella vita è stato portato con fierezza e passione. Accade un anno prima della morte, per un tumore al pancreas, sempre a Roma. Nel film Anna Magnani diventa simbolo dell’eterna città: appare nel buio della notte con fare dolente, attraversa le strade vuote e piene di silenzio che si aprono al suo cammino, sparisce oltre un portone che s’affretta a richiudere allo sguardo della macchina da presa. Prima, sorridendo, a Fellini che voleva farle una domanda: “No, nun me fido. Ciao. Buonanotte!”

Fabio Giovinazzo – BIO

Nato a Genova e laureato in Storia Contemporanea, Fabio Giovinazzo è autore e regista cinematografico, artista e scrittore.

Celebrato con preziosi riconoscimenti all’interno di festival nazionali ed internazionali, il suo cinema rappresenta figure e condizioni marginali quindi mondi fuori dall’ordinario, psicoanalitici ma non banalmente provocatori.

Il suo primo lavoro è stato “Kinek ìrod ezt?”, mediometraggio dedicato alla figura del poeta Edoardo Sanguineti. Il passaggio al lungometraggio è avvenuto con “L’arte del Fauno”, film grottesco e drammatico su una vita che soffre divertendosi. Tra le sue opere più recenti ci sono “12 cm di tacco”, opera thriller sulla morte surrealedi un attore senza nome, dove le indagini seguonolinee capricciose e bizzarre e “L’anima nel ventre”, film d’arte che coglie ispirazione dalle opere di Claudio Pozzani, poeta, romanziere e musicista italiano. Inoltre ha girato “Il ponte della vergogna”, lungometraggio tra documentario e fiction sui tragici eventi che hanno sconvolto Genova successivamente al crollo del ponte Morandi, e “Isis vs Zombies”, cine-fumetto tra exaggeratio e scabro realismo, valutato in modo eccellente dalla storica e specializzata rivista Nocturno. Infine ha scritto e diretto “Veleno Biondo”, dramma fantasy dove una seducente ninfetta si muove tra bene e male non si sa fino a qual grado consapevole, e “Il mio nome è Gesù”, lungometraggio sperimentale dove la sorella di Gesù viene a compiere la missione che suo fratello, immigrato mai riuscito ad approdare in Italia, avrebbe lasciato al mondo.

E’ membro della Giuria al Milan Gold Awards, importante festival cinematografico di livello internazionale. Da qualche anno fa parte di Fuorinorma, il progetto ideato dal decano dei critici cinematografici Adriano Aprà e aperto a valorizzare la via neo-sperimentale del cinema italiano.

Ha pubblicato, con Aracne Editrice, il suo primo romanzo Dissolvi, che è un thriller psicologico non lineare tendente alla poesia in prosa. Con Edizioni Contatti è uscito il suo libro 61 FOTOGRAMMI – L’occhio dietro la macchina” dove la trasgressione del suo lavoro cinematografico attraversa una forma di comunicazione nella quale il linguaggio visivo incontra la poesia.

Diverse anche le partecipazioni ad eventi artistici nazionali ed internazionali con le sue opere fotografiche.