La narrazione intesa come linea che collega varie installazioni

di Leonardo Kurtz

La fine delle grandi narrazioni di cui parla Jean Francois Lyotard ne “La condizione post-moderna” (nessuno crede più alla storia né alla scienza né ad altri sistemi di descrizione della realtà: sono solo belle storie, da considerare con distacco e una punta di rimpianto) è il tratto saliente del cosiddetto ‘post-modernismo’, nel cui ambito cinematografico lʼautore può concedersi la più ampia libertà di pescare, dallʼimmenso serbatoio delle storie già narrate, quelle che più corrispondono alla sua personale visione filmica, talvolta anche in senso ironico, divertito o nostalgico.

In Blade Runner” di Ridley Scott troviamo strade sovraffollate bagnate da piogge acide, grattacieli a forma di ziggurat, locali notturni art-decò, personaggi hard-boiled alla Raymond Chandler, e un plot fondato sul tema della replicazione degli organismi biologici. Questi ‘replicanti’ sono riesumazioni post-moderne del cinema passato, inseriti in una cornice distopica in cui convivono e si uccidono tra loro. Sono repliche connotate da sentimenti ribelli. Non vogliono affrontare la data di scadenza imposta dal sistema e tentano una scalata verso il loro creatore, con lo scopo – non sottotraccia – di non essere dimenticati.

Il monologo finale (rivisitato dallo stesso Rutger Hauer, che interpreta il personaggio di Roy Batty, l’unità NEXUS 6 che più si avvicina al compimento della ribellione) esprime una raggiunta consapevolezza esistenziale. “… like tears in rain. Time to die”: la consapevolezza coincide con la morte del personaggio del replicante, il quale, come spesso accade nel cinema post-moderno, è a sua volta la replica di altri personaggi provenienti da altre storie, confermando con ciò il connotato distintivo del postmodernismo nel cinema di fine millennio, ovvero il piacere di raccontare con disincanto storie già raccontate, condite da elementi esotici che spostano il piano emozionale ma non quello narrativo.

IL TESTO DEL MONOLOGO FINALE DI BLADE RUNNER

Il testo completo è questo:

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.”

«I’ve seen things you people wouldn’t believe : attack ships on fire off the shoulder of Orion, I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhäuser Gate. All those moments will be lost in time, like tears in rain. Time to die.»

Rutger Hauer/Roy Batty


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Il Blade Runner 2049” di Denis Villeneuve si muove in una direzione completamente diversa. Ciò che colpisce in questo sequel è lʼallentamento della tensione narrativa. Se lʼeffetto di un film raccontato in modo classico è quello di avvincere lo spettatore, catturandolo nel meccanismo dellʼintreccio, nel film di Villeneuve, al contrario, si ha lʼimpressione di aggirarsi per le sale di un museo.

Non più connessi tra loro da un meccanismo serrato, gli episodi e le scene si estendono e si dilatano in modo fluido, come un arcipelago di isolotti emersi dal serbatoio liquido della storia. Ogni singolo frammento sembra vivere di vita autonoma: ciascuno di essi è come unʼinstallazione che occupa un suo spazio e un suo tempo nellʼambito più vasto della narrazione. Viene spontaneo accostare i vari episodi del film alle opere di artisti concettuali come Allan Kaprow, pioniere e inventore del concetto di happening. Questi tasselli, infatti, si succedono in sequenza componendo un evento di più ampio significato artistico, proprio come avviene in un happening. Essendo concepito come parte di un insieme più grande, ciascun episodio deve contenere e rappresentare l’intero film. Lo stesso tempo filmico segue questa logica, dilatando il racconto per dare a ogni sequenza un proprio ritmo temporale.

L’unico elemento che non si adatta a tale struttura frattale è il substrato politico che Villeneuve inserisce nel film, ovvero la presenza di personaggi e ambientazioni di estrazione sovietica, in aperto contrasto con il mondo asiatico orientaleggiante del primo capitolo. Rispetto alla concezione postmoderna, la regia di Villeneuve non compie innesti filmici ma piuttosto ricerca e sperimenta apporti biografici. Ne è un esempio la neve che appare in una delle ultime scene: pur appartenendo all’infanzia del regista (è lui stesso a dichiararlo, “…winter is something I know intimately. I’m born in the snow”), la neve diventa anche espediente narrativo quando detta il ritmo dell’episodio, volutamente rallentato.

Troviamo un precursore di questa concezione nel Casanova” di Federico Fellini, che si dipana in stanze in cui il percorso della narrazione non è affatto lineare, e le maglie del racconto si sfaldano in favore di oggetti di scena. Il sentimento di morte raccontato da Fellini pervade lo spettatore sprigionandosi dalle varie installazioni attraverso le quali si muove il protagonista. L’incontro con la madre nel teatro immaginario, con i lampadari discendenti; le orge in climax ascendente; la discesa nelle viscere della balena; l’immersione della Venusia; l’incontro sessuale con l’automa (accostabile alla sperimentazione sessuale tra replicanti e ologrammi in Blade Runner 2049”): sono episodi slegati tra loro, come in un happening, interconnessi da una consapevolezza morale più che dallo svolgimento della narrazione, e connotati da una geometria frattale, nel senso che ogni episodio rappresenta l’intera opera. Pur con tutte le loro differenze, il film di Fellini e quello di Villeneuve sono entrambi fondati su concetti e teorie appartenenti all’universo dell’arte contemporanea.



Il Casanova di Fellini e bambola meccanica

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Leo Kurtz – BIO

Leonardo Kurtz Trimeloni, classe 1990, dopo un lungo percorso di sperimentazione come fotografo iniziato nei primi anni dell’adolescenza, si laurea nel 2018 in Cinematografia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma sotto la guida di Giuseppe Lanci A.I.C. (Autore della Fotografia di Nostalghia di Andrei Tarkovskij). Ha realizzato come direttore della fotografia oltre 15 cortometraggi di narrativa, documentari e video musicali, oltre ad aver lavorato come operatore di macchina su “Il Traditore” di Marco Bellocchio (In Palm D’or Competition 2019 – DP Vladan Radovic)

È stato nominato per la “Miglior Fotografia” al prestigioso Camerimage Film Festival (Student Edutes 2019) per il suo cortometraggio di diploma CSC “Memories of Tomorrow”. 

È co-fondatore della “Hubris Pictures” che prodotto, tra gli altri, il primo mediometraggio di Michael Pitt, attualmente in lavorazione.