Un viaggio alla ricerca delle fondamenta letterarie del regista più visionario

di Luca Biscontini

L’unico vero realista è il visionario”: questa è una delle frasi dette da Fellini (sebbene pare non sia sua, ma di Simenon) che più lo rappresentano. Il suo cinema è caratterizzato da uno sguardo capace ogni volta di deformare la realtà a tal punto da farla deflagrare in una trasfigurazione in cui i significati, e le relative interpretazioni, collassano ed emergono i significanti che, nella loro inafferrabile eccedenza, attraversano lo spettatore, in una magnifica esperienza ottica e sonora.

Edificio Fellini della studiosa Isabella Cesarini è un agile volume che ha il pregio, rispetto alla tanta letteratura sorta intorno al regista di Rimini, di cercare le “fondamenta” letterarie della sua opera – tanto per restare nel gergo utilizzato dall’autrice –, individuando alcuni specifici autori (Calvino, Tonino Guerra, Charles Dickens, Flaiano, Kafka e Poe), oltre a sottolineare il legame sempre presente con la psicologia analitica junghiana. In più, durante le varie letture proposte ci si sofferma in particolare su alcuni film, Satyricon e Casanova, considerati più rappresentativi rispetto agli altri, in termini di visionarietà e simbologia archetipica. Scelta che non può non essere condivisa, laddove è senz’altro proprio in quei lungometraggi che Fellini inonda l’occhio dello spettatore con le immagini più belle e potenti, spalancando porte sugli abissi, segnalando a più riprese come la realtà sia intrisa di mistero e confermando, dunque, quanto nulla sia mai come appare, poiché c’è uno zoccolo duro che resiste alla capacità intenzionale del soggetto, un enigma inespugnabile che è croce e delizia.

Se, mutuando la batteria concettuale di Gilles Deleuze, si volesse definire in una formula lapidaria il cinema di Federico Fellini, probabilmente, riferendosi in particolare alla sua tendenza a cimentarsi con lo stupore e la meraviglia, si potrebbe dire che è caratterizzato da un movimento interno denominabile “divenir-bambino”. Con questa espressione il filosofo francese intendeva individuare il processo attraverso cui ci si sgancia dalla logica del Potere in favore della Potenza, dal Maggiore verso il Minore. Se, in generale, le regressioni in psicologia sono considerate un pericoloso indietreggiamento, nell’arte, il più delle volte, sono una benedizione, giacché liberano una quantità enorme di energie creative interdette all’adulto.

Diverse volte Federico Fellini ha raccontato di aver sognato, nelle più disparate situazioni, Pablo Picasso, che considerava una sorta di suo omologo nella pittura. Ebbene il grande artista spagnolo ebbe a dire di aver impiegato tutta la vita per riuscire a dipingere come un bambino, laddove all’inizio della sua attività, già da adolescente, era in grado di raffigurare tele alla stregua di Raffaello. Questa fratellanza artistica svela – sebbene emerga chiaramente già nel suo cinema – quanto lo sguardo ad altezza di fanciullo sia una caratteristica predominate del cinema del regista e come non sia affatto facile riuscirsi a posizionarsi efficacemente in tale prospettiva.

È utile rimarcare questa che sembrerebbe un’ovvietà, e forse lo è, per muovere un’osservazione costruttiva al bel testo di Cesarini, magari per stimolare un dibattito. Partendo da Calvino, passando per Giulietta degli Spiriti e le altre figure femminili presenti nella filmografia di Fellini, l’autrice trae la conclusione che il regista abbia dato corpo a donne che si contrappongono al maschile in maniera decisa. Di più, afferma che esse prevalgano su quello che è considerato il sesso forte. Chi scrive si permette di dissentire da questa interpretazione proprio a partire dalla dimensione fanciullesca del cinema di Fellini. Infatti, il rapporto dialettico maschile-femminile non si articola mai all’interno di una dinamica adulta, ma sempre in quella asimmetrica figlio-madre. Le donne di Fellini sono spesso (anche fisicamente) mastodontiche, impressionanti, perturbanti, in quanto prodotte dello sguardo di un bambino: la Saraghina di 8 ½, la monumentale prostituta di Roma, la tabaccaia di Amarcord, la donna gigante di Casanova, la donna con cui fallisce l’accoppiamento Encolpio in Satyricon. Nel cinema di Fellini la donna non prevale, a rigore, sull’uomo, semmai sul fanciullo che, tutto sommato, non disdegna tale sottomissione, perché gli consente di rapportarsi, proprio in chiave junghiana, ancor di più alla dimensione magica della realtà, caricandola maggiormente di enigma e mistero. La donna, in tal senso, assume la funzione di passepartout per l’ignoto, dando corpo a nuovi orizzonti di comprensione. Ma quando si ritorna alla prosa della realtà, dell’età adulta, accade, sebbene con i toni della fantasia, di ritrovarsi nell’harem di Guido Anselmi.

Con la prefazione di Gennaro Malgieri, Edificio Fellini (160 pp.) è edito da Les Flaneurs edizioni.