L’Altrove tra Noi

da un’idea di Piero Tosi – Foto di Fiorenzo Nicoli

Canto di Natale

di Quirino Conte

Intanto che, trascorso almeno un mezzo secolo dalla sua invenzione, si scopre ormai sulla bocca di chiunque l’insopportabile, equivoca onnipresenza del termine “design” (fatto apposta per ingolosire con la sua pronuncia padana il sogno anglosassone delle più vispe gazzettiere milanesi), e del suo omologo peggiorativo “creativo”, mentre dunque tutto non è ormai che “design” e “creativo” – tanto che le anticamere degli analisti risultano gremite di stilisti, stylist, fashion designer, fashion coordinator, commercianti di moda, architetti, progettisti, arredatori, e comunque, inevitabilmente, artisti in genere, disperati per aver smarrito con il proprio nome la relativa identità –, a Roma tra gli smunti ruderi del post-centrosinistra (ora detti anche grillini), nell’ombra e nel silenzio, gli antri dei negromanti superstiti sono ancora grazie al cielo in piena attività: scintillanti di faville di autentico genio. Fortunatamente senza un nome, come sempre è nel Mito, dove si è necessariamente Nessuno per poter vincere le prevaricazioni del mastodonte.

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Nel più animato di questi antri, un minuscolo salotto dove in tempi sciatti come questi si sono consumati e si consumano ancora gli argomenti più saporiti e sottili che si possano immaginare, per un congiungimento di intelligenza e possente talento prese forma una fantasticheria che da subito conquistò i cuori più sentimentali. Si trattava di un polittico fotografico, di una specie di film, del quale c’era già un trattamento nelle scorrerie poetiche di quegli autori; che, come fosse stata sconfitta la dannata superbia delle pseudomodernità, raccontavano niente meno che di un Natale – ma non quello da compere compulsive, piuttosto un Natale santificato dalla miseria di una notte sferzata dalla tempesta e da un ancor più misero circo senza speranza che, raggiunta a fatica una chiesuola semidiruta in mezzo al nulla, intendeva cantare la ninnananna a un bambinello lì appena nato, stretto al seno di una tenerissima madre pallida e bella; con vicino un giovane padre putativo più candido e inerme del lattante lì accanto. Dunque, nulla di più antico.

E dove trovare maggior conforto per una simile idea se non in Piero Tosi, l’unico superstite veggente che tra le vocali e le sillabe di quel linguaggio già aveva stanato forme e sguardi ritagliati nella stagnola e nelle carte crespe lumeggiate di porporina? E in Fiorenzo Niccoli, che per abitudine o dono congenito non vede se non dentro un pulviscolo dorato, come si fosse preso la briga di rivelare con le sue foto altre fisionomie e sguardi diversi da tutto?

All’inizio i circensi iscrittisi a quel presepe non erano che quelli riparatisi ipoteticamente sotto lo chapiteau squassato dal vento in quella notte tempestosa. Poi, via via, se ne aggiunsero altri: come nelle affollatissime pale umbro-marchigiane o nei presepi di cartapesta allestiti nei chiostri di clausura. Fino, si direbbe, a formare un gregge di creature semi-trasparenti e traslucide. E non si sarebbe finito mai di generarne, in quell’inverno romano: giacché furono in molti a chiedere di approssimarsi al fulgore di quella Natività. Tanto che sarti e parrucchieri furono costretti a lunghe ore di lavoro chini sulle loro opere. Come fervorosi miniaturisti di una pagina interminabile.

Nacque così la Sacra Rappresentazione di un Natale tra i più misteriosi e santi. Dal cuore di due poeti e, senza alcun vantaggio, dalla commossa partecipazione degli allievi di una scuola di Cinema; o meglio, di germogli colti da una serra ricolma di speranze. Con occhi belli e sorrisi buoni. Poi si aggiunsero anche gli amici: mentre la tempesta scuoteva quella chiesuola, e un bambinello come fosse di cera si stringeva spaurito al seno di sua madre. Quasi temendo quanto si minacciava all’esterno di quella basilica romana, all’ombra della cupola berniniana dove tutto era stato messo in posa.

In tanti giurano di aver visto gli artisti di quel circo svolazzare tra le stelle.

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