Il Fotografo = Viaggiatore del Mondo

La mia macchina fotografica è il mio passepartout per il Mondo

Graziano Villa

Forse sarà la mia origine ligure, precisamente genovese, che mi spinge a vedere la mia professione come un viaggio, inteso come ricerca. Una continua ricerca. Ricerca come conoscenza !

Come Cristoforo Colombo, si fa per dire, ho “navigato“ attraverso diversi settori della mia attività professionale, circumnavigando in lungo e in largo, utilizzando la mia macchina fotografica come uno strumento, come una nave, per “approdare“ in diversi “lidi“ di questo nostro Mondo per conoscerlo meglio.

Continuando a parafrasare il gergo marinaresco posso dire di aver cominciato la mia professione navigando nel “burrascoso“ mare del Reportage; per poi attraversare quello “turbolento“ e snob della Moda; dopodiché ho trovato ristoro e riposo nelle “calme acque“ dello Still-life, per approvare infine a quello “riflessivo“ del Ritratto.

La mia formula esistenziale è un giusto miscuglio di tutto questo, e quindi un‘esperienza di vita meravigliosa ! Volete degli esempi ?

Bene, con il reportage ho viaggiato in lungo e in largo sulle jeep o sugli aerei da turismo la savana africana, la giungla sudamericana e gli immensi spazi del nord america; nella moda ho conosciuto delle donne stupende; nello still-life ho scoperto oggetti meravigliosi, antichità preziose, arredi incredibili e persone di particolare levatura culturale che lavorano in questo ambiente.

E adesso che realizzo ritratti di personaggi importanti nell‘ambito economico, politico e culturale, o di semplici artigiani, sono particolarmente entusiasta.

Ma al di là del risultato professionale, che è comunque importante, un altro aspetto gratificante è il diretto contatto con questi personaggi : il rapporto umano.

Per decenni ho ritratto personaggi di ogni genere, di ogni strato sociale e culturale, di ogni Paese del mondo. L’ho fatto  per riviste  importanti come “AD-Architectural Digest”, “CAPITAL”, “AMICA”, “CLASS”, “TRAVELLER”, “FORTUNE”, “VANITY”, ecc.

In questo mio peregrinare in ogni angolo del pianeta sono sempre stato affascinato dalle grandi architetture che l’Uomo ha costruito per lasciare nel Tempo traccia del proprio passaggio e della propria esistenza. I nomi di tali icone sono scolpiti nella memoria collettiva e  continuano a testimoniare l’audacia dell’ingegno umano: la Torre Eiffel, la Muraglia Cinese, le Piramidi di Giza, le Torri Gemelle del WTC, tragicamente famose, quelle di Kuala Lumpur, il Big Ben di Londra, il “Big Boy”, appena fuori dall’aeroporto di Oslo, il Castello Sforzesco di Milano, i Fiori di Metallo della Défense a Parigi, e così via.

© Graziano Villa – Mostra “La Grandeur di Parigi” – per il Ministero della Cultura della Repubblica di San Marino

Anche a queste strutture ho dedicato una serie di “Ritratti d’Architetture”. E parlo di ritratti a ragion veduta perché, come nel ritrarre le persone, ho tentato di personalizzare questi Giganti, di sceverare e descrivere, amplificandola, la loro struttura grafica, ovvero  la loro “anima”. Ho insomma cercato di restituire visivamente  l’impatto emozionale che queste meravigliose architetture hanno suscitato su di me: un impatto altamente soggettivo e dunque non comune perché, alla fine, lo sguardo di ciascuno è comunque, sempre e assolutamente unico e inimitabile. Credo, spero di esserci riuscito.

© Graziano Villa – Mostra “Roma : Caput Mundi” – Fontana di Trevi – Roma

©Graziano Villa – Mostra Personale alla Galleria “F.A.R. – Fabbrica Arte Rimini” – Rimini – 2018 – Tributo al “W.T.C.”

Il Saggio del Prof. Bertrand Marret

Monsieur Bertrand Marretè il nipote per DNA (figlio della sorella) di Henry Cartier-Bressoninsieme a Robert Capa, David Seymour e George Rodger fondarono la “MAGNUM PHOTO Agency” nel dopoguerra.

Mr. B. Marret è storico dell’Arte e collaboratore del Prof. Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani.

Saggio del Prof. Luca Cesari

Carissimo Graziano, ho di te in mente le grandi ali fluide che diventano quasi nubi sul Kenya, di una danza derviscia dei Momix in volo ,fotografata a New York che è quanto di più diverso si possa lanciare in cielo dal volo dIcaro. Pari solo alle ali da uccello del Paradiso di Linsdey Kemp che hai veduto tentennanti al vento librarsi in non so quale altro teatro del mondo come le zampe di un cieco al sole che alluna in una metropoli su strade di Shanghay o sconfina in rapporti architettonici che pensano di sconfiggere la misura. Rapporti che mi ricordano quei cori della Terra promessa di Ungaretti che cantano come il coro dellAntigone di Sofocle: Ah! luomo che non saprà mai smettere di crescere / e cresce già in misura disumana… mentre in nome di un’architettura non segnata da un vanto così potente tu ci porti più lontano di quei grattacieli di Kuala Lampur o di Chicago ai tetti delle case di campagna scandinave sfondate dagli abeti con gli interni legnosi di Norvegia che sembrano non diversi da quelli del Butan e del Tibet. Ci sono per i luoghi e ambienti e volti e cose che hai fotografato, questo doppio tempo che batte ora sulla luce della vetta del Kylimanjaro, ora dentro l’immenso campo d’azione dei nostri tempi, la moda, la civiltà della corsa e della deambulazione veloce. La deambulazione si gode secondo l’andamento, lo spostamento, la velocità; e, per certo, il deambulare è addirittura la condizione di chi vive o ha interpretato la fotografia come te, secondo le leggi implacabili della nostra ormai fantascientifica realtà. Ma viene anche il momento dello stare, quello cioè della vertiginederviscia, che tu hai già dentro, come ho detto, in perpetua mobilità, ma che è anche quello che della fotografia impaurisce e meraviglia in generale, perché il fotografo deambula tanto per raggiungere l’immobilità. La fotografia non è l’unica arte del deambulare nello stare o viceversa, ma, a ben pensare, lo è forse più di altre. Un grande teologo della scuola parigina di San Vittore, Ugo, del XIII, raccomandava la felice condizione di una peregrinatio in stabilitate che vale per molte discipline, io credo, e per molti sguardi gettati su ciò che di solito succede e tu fotografi. Da qualche tempo, dopo la grande carriera del deambulare, tu sei entrato in una nuova stagione dello stare e pur non possedendo tutti i dati organici che mi consentano di predire ciò che in te sta per avvenire sento i cambiamenti che si sono provocati o si stanno provocando nella trasformazione del tuo fotogramma. Trasformazione non per salti, natura non fecit saltus, e così se ripenso ai corpi dissolti nella smaterializzazione dei corpi in danza della Salomè.

O alle traiettorie quasi extracorporee che assume il ritratto di Annie Leibowitz, nell’instabilità che forse poggia sulle idee estreme e anti-realistiche della nuova scienza, idee che tutti abbiamo, vie d’uscita dalla materia; tutti possiamo uscire dal carattere ortopedico del nostro corpo, ecco tu riesci così a offrircene un’idea.

Confrontandoci con l’enigma del mondo fisico e con la realtà stessa. Ora in queste recenti fotografie di Roma, tu guardi la città come quel qualcosa che i filosofi han chiamato per insufficienza di parole, la cosa stessa”, cioè la realtà in cui crediamo di vivere e di esistere non è che un fantasma, un flusso di fenomeni di quella realtà primaria. Così la pensano anche gli antichi scrittori o bardi vedici, per i quali quello che vediamo e riteniamo reale non è altro che immaginario. Ed è quello che tu ci mostri spellando le vedute classiche di unaRoma wilnkelmanniana sino a ridurle al grado più estremo del vero reale cioè del fantastico. Non ti potrebbe riuscire se non con questa operazione da Marsia della fotografia e così vediamo emergere una Roma dei Prototipi e degli smaterializzati monumenti. Tutto questo tu ottieni per una sorta di liquefazione delle forme liberate dalla prigionia della compattezza che mette alle strette la credenza nelle condizioni oggettive della natura, per l’attraversamento come il corpo di Annie Leibovitz che esce da se stessa.

Ho ammirato le foto che al primo colpo d’occhio, tra una portata e l’altra, m’erano già sembrate molto interessanti per la liquefazione visionaria dell’immagine, per l’attraversamento cioè di una soglia in cui la fotografia non è ormai più che una velo tra dimensioni, una sorta di maya attraverso la quale la presenza degli oggetti architettonici e scultorei annuncia il suo “tipo” ideale, il suo contro fenomeno visivo e originario. Insomma m’hai ricordato Goethe e non per le divagazioni romane con il bellissimo cappello con cui lo ha ritratto J. H. W. Tischbein, ma per la sua teoria naturalistica e simbolica dell’Urphaenomen, del “fenomeno originario”. Rimando ogni altra considerazione e impressione a una futura visita allo studio e a una presa dal vero.

il fenomeno originario si rivela solo all’osservazione del particolare e al “naturale”.


Prof. Luca Cesari

Il Prof. Luca Cesari è Direttore dell’Accademia delle Belle Arti di Urbino, si è formato sotto la guida di Luciano Anceschi e dedica prevalentemente la sua attività di studioso all’estetica, alla critica, alla poetica della tradizione romantica e novecentesca: personalità e idee. È autore di diverse pubblicazioni realizzate con editori come Allemandi, Scheiwiller, Archinto, Bompiani. Tra le più recenti: l’edizione critica della stesura originale del Giorgio Morandi” di Francesco Arcangeli (Allemandi 2007), gli scritti di riflessione teorica sulla storia dell’arte dello stesso ArcangeliUno sforzo per la storia dell’arte (Mup-Università di Parma, 2004), l’opera omnia degli scritti estetici di Gillo Dorfles, Estetica senza dialettica”. Scritti dal 1933 al 2014 (Bompiani, “Il pensiero occidentale” 2016). Di recente uscita, per le sue cure, è l’edizione dell’opera omnia di Tonino GuerraL’infanzia del mondo”, “Opere 1946-2012” (Bompiani, “Classici” 2018). Collabora a “Estetica. Studi e ricerche”. Ha diretto dal 1994 al 2000 i “Quaderni della Fondazione Arcangeli” editi da Scheiwiller ed è stato Consulente scientifico, poi Presidente, durante l’anno 2012-2013, del “Centro Internazionale di Ricerche Pio Manzù”.