Ritorno al Disegno

di Bertrand Marret – Prof. di Storia dell’Arte

Può essere che il disegno diventi la tentazione più ossessionante della mente”….

Paul Valéry

<> Sono parole di Henri Cartier-Bresson, prefazione alla sua raccolta Images à la sauvette”, che sarà la Bibbia di generazioni di fotografi.

Che altro poteva suggerirgli il suo ambiente: suo padre e suo nonno erano distinti artisti del tempo libero ed hanno lasciato dei piccoli album di disegni; testimonianza dei luoghi intimi della memoria, perlustrati nei momenti distensivi della ricreazione. Suo zio Louis Cartier-Bresson, “padre mitico”, vero pittore di successo, lo conduceva, ad appena sei anni, nel suo studio: egli ricorda che qui sentì per la prima volta << l’odore magico della pittura>>. Louis muore nel 1915 all’assalto di una trincea, ed ad iniziarlo alla pittura prende il suo posto Jean Cottenet, già compagno di studi di Louis alla Scuola di Belle Arti. Verso 1925, durante le vacanze estive a Offranville in Normandia, Cartier-Bresson dipinge nel giardino di Jacques Emile Blanche, pittore e letterato, forse in parte il modello che servi a Proust per accampare nella sua Recherche” il personaggio di Elstir.

BERTRAND-MARRET_I-DISEGNI-DI-H.C.BRESSON_LA TENTAZIONE DEL DISEGNO

A Parigi andava per la maggiore André Lhote, un geniale cubista sintetico, teorico della Sezione Aurea: l’arcano della geometria applicato alla composizione di un quadro. Dal 1927 al 1928, Cartie-Bressonfrequenta per due anni l’Accademia Lhote dove il maestro diffonde con fervore le sue teorie sul principio della geometria interna dell’opera d’arte. Chiarezza intellettiva, analisi e rigore costruttivo sono i suoi precetti. Lo stesso Cartier-Bresson più tardi confermerà : << Lhote mi ha insegnato la logica del quadro, il rigore dello sguardo >>. La rettitudine dello spirito, il gusto della forma, la passione per la composizione concepita con spirito di efficacia e di autenticità vengono senza dubbio da lui. Tutto questo lo ritroviamo nelle mirabili fotografie, ed ora nella sua opera a mano libera. Quanto segue, fa parte della storia di un fotografo leggendario che non smette mai di pensare in termini di pittura e disegno. << Per quanto mi riguarda – dice Cartier-Bresson – fotografare non può andare disgiunto dagli altri mezzi di espressione visiva… per me il “tiro” fotografico è un album di schizzi, uno strumento d’intuizione e spontaneità >>. Una delle sue formule celebri mette a confronto l’atto di fotografare e l’atto di disegnare : << La fotografia è per me l’impulso spontaneo di un’attenzione visiva costante, che coglie l’istante e la sua eternità. Il disegno, invece, data la sua grafologia, elabora quello che la nostra coscienza ha colto di questo istante. La foto è un’azione immediata, il disegno una meditazione >>.

Non c’è dunque da stupirsi che all’apice della sua gloria di fotografo dopo il 1970, raggiunta la sessantina, Cartier-Bresson abbia sentito l’esigenza di rimettersi in discussione e riesaminare la propria visione del mondo. Mette la sua fedele Leica da parte, e come sperava da sempre, riprende a disegnare incoraggiato in questo da amici come Jean Renoir, Saul Steinberg o l’editore Teriade, il suo guru, il suo suggeritore : << Henri, con il tuo lavoro fotografico, hai detto tutto quel che avevi da dire: riprendi la pittura, torna al tuo primo amore >>.

Cartier-Bresson ha fatto una scelta : piuttosto che tener cara la propria immagine di grande fotografo, quale ormai la pubblica opinione lo considera, preferisce il ruolo di disegnatore, e se non fra i più celebri, certo fra i più appassionati. Basta un foglio bianco ed una matita da disegno e come era già accaduto per la fotografia un gusto quasi esclusivo per il bianco e nero. Il disegno non reclama sempre il colore, a volte ingannevole, ha una sua perfezione che può essere raggiunta senza chiedere nulla in prestito alla pittura. Non c’è rottura tra l’una avventura e l’altra, perché hanno il medesimo obbiettivo: saper vedere come atto essenziale dello spirito. << Ora che mi sono messo a disegnare – dice Cartier-Bresson – ho semplicemente cambiato utensile, ma ho continuato a guardare>>. Quello che conta nella pratica del disegno è l’acutezza dello sguardo, l’interrogazione insistente dell’oggetto nell’aspetto formale, non per quello che significa. Paul Valéry ha detto sul disegno delle cose sottili e necessarie. Giustamente egli distingue la visione distratta, lontana, che noi abbiamo in generale degli oggetti da quella “voluta” quando abbiamo la matita in mano. Goethe non ha forse detto nel suo “Viaggio in Italia” : <>. Sotto la spinta della matita l’oggetto sollecitato si spiega e le forme si aprono, rivelando la loro essenza.

Una delle prime scelte di Cartier-Bresson è stata quella di disegnare presso il Muséum national d’Histoire Naturelle di Parigi i grandi scheletri di animali preistorici. Un esercizio allo stato puro. Una sorta di ascesa. Uno studio paziente, meticoloso, che ribalta il tempo e comincia il suo cammino dall’osso. Al fotografo che lavorava “nell’istante decisivo”, sembra che fosse ormai necessario lo spessore dei millenni per realizzare il suo nuovo progetto.

BERTRAND-MARRET_I-DISEGNI-DI-H.C.BRESSON_Muséeum d’Histoire Naturelle – Paris – 1976

Lontani dal capriccio, mai inclini allo straordinario, i suoi soggetti rispondono alle categorie tradizionali, sono in generale semplici, mai banali, ma carichi di emotività : nature morte, paesaggi urbani, giardini pubblici, i “passages” parigini ricordati da Walter Benjamin, vedute di campagna, alberi spogli, cime di montagne, Ulysse il gatto di casa, i ritratti con la connivenza delle persone a cui è legato, qualche autoritratto speculare che colpisce per la gravità dello sguardo e il nudo femminile, disegnato dal vivo, pietra di paragone di ogni arte, modello intimo ed eterno della bellezza formale del corpo nella sua irradiazione tattile. Un rapporto di prossimità con la carne ritrovato e il suo conforto. Poi c’è il silenzio delle copie da i grandi maestri. Da sempre, come il suo grande amico Alberto Giacometti, Cartier-Bresson ha sentito la necessità e il piacere di fare delle copie dall’originale, probabilmente per dare una realtà alle sue predilezioni e forse rivelare a se stesso ciò che era capace di vedere. Le rivisitazioni di Tiziano, Tintoretto, Bellini, ma anche Goya, Ingres o Géricault, sono un ritorno alla copia letterale, quasi fedele, che lasciano l’impronta emotiva della traduzione.

Henri Cartier-Bresson ha sempre diffidato dal puro contorno del disegno al tratto, minimalista e virtuoso, chiuso nello snodarsi di una sola linea, cosi come l’hanno praticato Matisse, Picasso o Cocteau: si dedica invece interamente al “duro piacere” del disegno d’osservazione di un oggetto, di un modello, o di un paesaggio. Il disegno d’osservazione non è un luogo comune, una copia volgare o macchinosa, ma un attento processo di trasposizione dei dati visivi come lo spazio e il volume in dati grafici con l’uso del tratto e del vuoto. I vuoti, le “riserve” come usano chiamarle i pittori, hanno in un disegno la stessa importanza della qualità del tratto perché sono “luce”. Dice Jean Genet: << i bianchi, realtà sensibile all’assenza, danno al foglio un valore di fuoco >>.

Fissare l’oggetto nella luce, disegnare dal vero, scrutare, sentire e tracciare simultaneamente, esige una concentrazione visiva costante tale da poter consentire la restituzione dell’apparenza dell’oggetto attraverso l’economia del tratto. << Il tratto è l’origine di tutte le cose, la radice di tutti i fenomeni. Unicamente il tratto e la sua spontaneità sovrana danno al disegno la necessaria intensità >> dice Shitao il monaco detto “zucca-amara”, pittore e letterato cinese del Settecento in un famoso trattato di estetica.

Il disegno d’osservazione, quando è autentico e mosso dal desiderio di capire, che si tratti di una mela, di un albero, di una montagna, di una figura, è sempre percepito come l’immensa testimonianza di una verità anche se contenuta nello spazio di un foglio.

BERTRAND-MARRET_I-DISEGNI-DI-H.C.BRESSON_Copia da Tiziano – Autoritratto del Prado

Cartier-Bresson disegnava “sur le motif” ogni giorno con ammirevole costanza, di preferenza di pomeriggio, per evitare il sole a picco, seduto nel luogo giusto, seguiva la luce fino a sera, << in una sfida che lo possedeva interamente e senz’altro fine che la devozione al suo impegno >>, scrive Jean Leymarie. Faceva uso di una matita dura, della pietra nera, a volte di penna e inchiostro di china, di tempera quando cedeva al colore, ma abitualmente di grafite o mina di piombo dal segno nitido che ben si adattava al suo temperamento. I suoi disegni danno spesso l’idea di un fremito, di una sorta di nervosismo, un accanimento nel dispiegare il tratto che torna su se stesso e si esaspera: non è mai abbastanza vicino a quanto vuole. << Non riesco a disegnare senza una tensione “voluta” che trasforma visibilmente ciò che prima avevo creduto di percepire >>. La volontà domina tutta l’avventura del suo disegno che lascia filtrare di continuo questa tensione senza la quale non avrebbe “luogo”. Il disegnatore al lavoro avanza, indietreggia, si china, strizza gli occhi, si comporta con tutto il corpo come fosse un accessorio dell’occhio, diventa, tutto, un organo di mira, di puntamento, di aggiustamento, come per l’arciere Zen del suo libro prediletto: “Lo zen nell’arte cavalleresca del tiro all’arco” di Herrigel che l’amico Georges Braque gli regalò alla fine della guerre e del quale Cartier-Bresson non si separò mai.

Ingres diceva che il disegno era la probità dell’arte, parola singolare, vicina all’onestà, all’osservazione rigorosa, all’integrità e alla lealtà; ognuna di queste parole può perfettamente qualificare l’opera disegnata di Henri Cartier-Bresson. Per conto mio, aggiungerei l’ingenuità nel primo senso di questa parola : ingenuus stato di colui che è nato libero.

Vedere, Imparare ad Amare, Disegnare

di Luca Cesari – Direttore dell’Accademia di Urbino